
Forse non è stata un’ottima idea passeggiare nel parco così presto. A parte un uomo che se non smette un attimo di correre, non avrà vita lunga e una signora con un cane levriero, non c’è anima viva. Eppure l’atmosfera dei Giardini Pubblici è così rilassante e quasi surreale in una Milano che riesce ad essere rumorosa in qualsiasi ora del giorno. Mi verrà sicuramente l’allergia con tutti questi semini che il vento trasporta assieme alla polvere, ma non fa niente. Prima di lavorare voglio fare una passeggiata.
Non è la prima volta che passo di qui e guardo verso destra, fra i rami e gli alberi secolari perché questo angolo del parco in qualche modo mi attrae perché so che cosa c’era in questa piccola conca, questo strano avvallamento del terreno che, se si escludono le finte rocce, per tutto il resto del parco è piatto.
Purtroppo non ho dei lucidi ricordi perché penso di non esserci stata poi così tante volte, dato che appartengo a quel genere di famiglia che non ha mai ritenuto così indispensabile portare i figli a svagarsi e a vedere qualcosa di bello. Eppure mi sembra di sapere tutta la sua storia e la vita dei suoi abitanti, perché dalla finestra dell’Ufficio del Catasto di Via Manin, con vista panoramica nel parco, mi arrivavano le informazioni. E allora ecco che piano piano i ricordi si snebbiano e risento il racconto del puma che, come un gattone nero, giocava con l’uomo che gli portava i pasti o all’entusiasmante notizia che erano nati nuovi cuccioli: l’elefantino, l’ippopotamo e mi sembra anche quello della giraffa. Sicuramente ci avrò messo piede nello zoo di Milano, ma come dicevo non penso così tante volte come è successo a molti bambini della mia generazione. Solo adesso so che l’elefantessa si chiamava Bombay e che proveniva da un circo dell’India. Aveva 6 anni quando fu portata a Milano nel 1939 dalla Signora Mariuccia Ciapponi in Molinar, che accudiva con amore i suo animali, il cui marito era un cacciatore e zoologo che sta per colui che studia gli animali e i loro comportamenti. Che dire però di lui, fu uno dei maggiori esportatori di animali dall’Africa!
Non sapevo che si era ammalata subito di depressione (non la signora Mariuccia ma l’elefantessa) perché era abituata a stare a contatto con la gente e che allora fu fatto venire in fretta dall’India il suo istruttore che la mise ad esibirsi come al circo e, leggo che “si riprese felicemente”. Ecco, questo sì, me lo ricordo, l’elefante che girava con la proboscide un cartello appeso alla parete con scritto “attenti ai borsaioli” e che suonava un organetto e che poi sollevava dei pesi colorati. Le mettevano anche dei grossi occhialoni bianchi e le si poteva anche dare le noccioline che ovviamente andavano comperate, cosa che io non avrei mai potuto fare!
Non c’è più l’odore delle bestie selvatiche e le gabbie sono state trasformate in una costruzione a vetri usata come laboratorio gioco per i bambini. Sono sicura che l’odore degli animali selvatici era forte ed intenso e che se solo lo potessi sentire (perché gli odori rimangono per sempre nel cervello) ecco che potrei vedere chiaramente i miei ricordi. Mentre mi rifletto nei vetri mi pare invece di vedere la tigre e il leone che passavano la giornata seduti a guardare chi li guardava. Ogni gabbia era una scatola e a fine Ottocento, quando avevano incominciato a costruirle, nessuno si era posto il problema delle loro dimensioni che si sono rivelate troppo piccole come tutta l’area stessa dello zoo. Gli animali si moltiplicavo e vivevano a lungo, certo, significa che erano trattati bene, ma 300 esseri viventi in uno spazio di 500 ettari erano davvero troppi. Fu così che negli anni ‘80 la stampa iniziò ad occuparsi dello Zoo e gli ambientalisti iniziarono a protestare e a furia di proteste nacque l’idea che uno Zoo in città non avesse più senso di esistere. Eppure io continuavo a ricevere notizie dall’Ufficio del Catasto di Via Manin con vista panoramica sul parco.
Da bambina non avevo una coscienza animalista così spiccata, sono sicura che, come tutti mi meravigliavo alla vista di animali che non fossero un cane o un gatto. Adesso però che sono davanti alla gabbia chiusa dell’orsa Olga me la ricordo bene quando, impazzita, passava la giornata a dondolarsi fra le sbarre. Non dovevo essere più una bambina e forse allo zoo ci ero andata sicuramente da sola, per cui ero già “grande”. La gabbia ora è quasi ricoperta di edera ma si intravvede ancora chiaramente quanto fosse bassa e piccola. Non riesco invece a localizzare dove fossero i 2 orsi bianchi, il cui ambiente “polare” consisteva in una vasca con l’acqua refrigerata. Hanno cancellato molte tracce. È invece rimasta la vasca delle otarie (ma non l’odore) che ha mantenuto i suoi colori azzurri ora un po’ sbiaditi. Qui accanto hanno tagliato un albero di cui rimane un enorme ceppo; doveva essere sicuramente maestoso. Chiudo gli occhi e mi giunge l’odore che viene da un baretto vicino all’area giochi; ma è di caffè e di toast: non è quello che cerco!
Lo zoo venne inaugurato nel 1923 e per quasi 70 anni rimase al suo posto. Si cercò piano piano di trovare una sistemazione adeguata a tutti i suoi ospiti. Dal 1985 molti animali vennero regalati ai bioparchi (sono sempre degli zoo ma il termine suona meglio e più ecologista!) ma nessuno voleva prendersi il vecchio leone e l’elefantessa Bombey che rimasero al loro posto fino alla morte. Ora sono impagliati o meglio hanno subito il processo di tassidermia per conservare al meglio il loro aspetto originario e sono esposti al Museo di Scienze Naturali, assieme all’orsa Olga e forse al macaco Giovanni.
A quest’ora non ci sono i bambini e quando arrivano per assaltare i giochi non si pongono certo la domanda di cosa ci fosse in questo luogo che ha allietato le giornate di tanti loro coetanei di un’epoca che sembra così lontana.
Lo sapevo che non dovevo venire qui, perché invece di trovare il luogo rilassante, come è stata la sensazione entrando nel parco, mi trovo accerchiata dalla malinconia. Una foglia secca mi è caduta in testa e la sposto, facendole continuare il suo percorso verso terra.
Dal 1992 lo Zoo non c’è più e, neanche mio papà! Rimane invece l’Ufficio del Catasto di Via Manin con vista panoramica sul parco.
Alessandra Abbiati
Ciao, con il tuo racconto mi hai fatto venire malinconia