Mosca è uno stato mentale che esula dagli stereotipi comuni, quelli che si dibattono tra il considerarla un grigio e intricato cumulo di parallelepipedi fatiscenti in cui vivono uomini da anni umiliati e sfiniti da miseria, alcolismo e Comunismo, e tra l’idea di una Mosca imperiale, fatta d’aquile bicipiti, tondeggianti cupole dorate e slitte fantastiche che scivolano sotto cieli e stelle di glaciale purezza.
Mosca è entrambe le cose, e molto altro. Ed è la vera essenza di questo “altro” che è difficile spiegare. Perché è un sapore, un moto del cuore, una voce che risuona lontana, è una musica antica le cui note ormai sono consegnate all’oblio della memoria.
L’anima di Mosca, oggi, è rintanata.
Mosca confine con Asia, rozza, terragna, frenetica. Da sempre nell’immaginario collettivo occupa un posto in antitesi a San Pietroburgo, la città fortemente voluta da Pietro il Grande, acquatica, europea, elegante. Mosca è l’antipode della gentilezza. E’ un surrogato di rassegnazione, misto a rabbia e disillusione. Ma le anime maltrattate non possono essere gentili. E l’anima di Mosca, ferita dagli zar, sfiancata dal comunismo e ora avvilita dalla boria e villania dei nuovi russi arricchitisi con mafia e quant’altro, credo si sia rintanata.
Forse nelle sale dei suoi musei, forse fra le tombe immerse nel silenzio dei suoi cimiteri, o chissà, dietro qualche altare di una sconosciuta chiesa di periferia. Ciò che conta è che quest’anima resiste. Alberga senza dubbio nella miriadi di appartamentini di periferia, dove le donne coltivano ancora aromi e fiori in scodelle sui davanzali delle finestre. Dove per entrare ci si toglie le scarpe. Dove il rubinetto del bagno, girevole, serviva un tempo sia per il lavabo che per la vasca. O forse fluttua sopra gli immensi boschi di betulle che la circondano. Aleggia ondivaga sopra gli stagni, i laghi, gli immensi fiumi che la tangono, pallidi anticipatori della grandezza e maestosità di quelli della vicina Siberia.
San Basilio.
Eppure quest’anima ferita, una volta abitava luoghi più austeri!
Quest’anima viveva nelle piccole sale di San Basilio, la stupefacente chiesa adagiata sul fondo della Piazza Rossa, fatta costruire tra il 1555 ed il 1560 dal sanguinario zar Ivan il Terribile per celebrare una delle vittorie dell’esercito russo contro il Kanato di Kazan. Si dice che l’architetto che la progettò fu accecato al termine dell’opera per far sì che non potesse riprodurre un simile splendore in altre parti del mondo. Ogni paese ha leggende simili. Ma gli esterni colorati, sono talmente belli, multiformi e asimmetrici che qui mi sembra più facile crederci. L’esterno contrasta con la semplicità delle salette interne, così come il reale nome della Chiesa, Cattedrale dell’Intercessione, in qualche modo stona con il più semplice e popolare con cui la chiesa è universalmente conosciuta. Basilio infatti era un “folle di Dio”.Una figura molto popolare nella cultura religiosa russa, che inevitabilmente richiama alla mente l’inquietante figura dello stesso Rasputin, “Santone” maledetto della Chiesa Ortodossa.
La piazza Rossa.
E dalla chiesa si allunga la mitica Piazza Rossa. Anticamente in russo Krasnaja Ploscad significava “Piazza bella”. In tempi più moderni il termine si è svuotato di questo significato ed è diventata semplicemente “Piazza Rossa”. Il terreno della piazza, leggermente convesso, non permette di realizzare appieno la grandezza della sua superficie. L’arzigogolata e fantasiosa costruzione in mattoni rossi che svetta esattamente al lato opposto della piazza rispetto a San Basilio, sembra uscita da una fiaba di Andersen. Si tratta del Museo Storico Russo, costruito nella seconda metà del 1800 in stile “pseudo russo” con cupole a cuspide, chiamate “kokošniki” (antico copricapo femminile) che si alternano a scalette e intarsi tipici della decorazione antica russa.
Lateralmente la piazza è chiusa dai GUM, immensi magazzini a tre piani, una volta statali, ormai di relativo interesse turistico in quanto sempre più simili ai magazzini europei, sia per la merce venduta che per la popolazione che li frequenta, e dalle alte e possenti mura che cingono il Cremlino.
Forse l’anima russa ha vissuto anche lì, prima di venire “sfrattata” con il trasferimento della capitale, nel 1713 a San Pietroburgo. Vaga ancora, avvolta in uno scialle colorato di lana, all’ombra delle croci, ai piedi delle sue cattedrali. Sosta di fronte alle imponenti iconostasi, avvinta dalle note lamentose di un’interminabile liturgia ortodossa, china sotto lo sguardo immobile di qualche Madonna. Mai in nessuna altra immagine religiosa gli occhi della Vergine sono apparsi così misericordiosi e così misteriosi! Così inaccessibili e così vicini alla natura umana!
Le “Vergini”.
Nelle chiese aleggia odore elementare di cera bruciata. Tante sottili candeline giallo opaco svettano accese in preghiera. Alcune di fronte a una “Vergine della Tenerezza” che da più di 700 anni appoggia dolcemente la sua guancia a quella del Bambino, escludendo da un’intimità inviolata il fedele. Oppure di fronte alla “Vergine di Kazan”, i cui occhi scuri scrutano puri con la serenità di chi non disattende, dall’alto di qualche teca.
Molte di queste icone, opere di illustri scuole, come quella di Novgorod o come quelle di Rublëv, il più grande e celebrato pittore di icone russe vissuto nella prima metà del ‘400, si trovano ora alla Galleria Tretjakov. La pinacoteca ha offerto nel corso degli anni rifugio e salvezza a numerosissime opere d’arte, salvandole dagli stupri di guerre e ideologie politiche devastatrici.
L’Armeria.
Dalla piccola piazza chiusa da tutti i lati dalle cinque cattedrali del Cremlino, si prosegue fino all’Armeria, oggi custode gelosa dei favolosi “Tesori degli Zar”. Quanto di più sontuoso e fiabesco si possa immaginare per ricreare nella mente la scenografia di uno dei più ricchi e potenti imperi mondiali, qui lo si trova.
Ecco lo spirito russo, quello antico, che ritorna a vestirsi di splendidi abiti e pellicce di ermellino. Si adorna con gioielli di inestimabile pregio. Addobba i suoi cavalli e le splendide carrozze con fini paramenti. Siede altero e sdegnoso su troni letteralmente tempestati di pietre preziose o in avorio finemente intarsiato.
Ed è lieve camminare sul parquet scricchiolante, nel silenzio irreale delle sale, immaginando quella che è stata una fiaba anche se per pochi. Anche se breve. In fin dei conti la fiaba di Mosca è iniziata solo nel 1147 e già dopo sei secoli volgeva al declino.
Le dinastie russe e le fiabe.
La prima splendente e valorosa dinastia dei Rjurikidi, quella che annovera fra le sue fila nome mitici come Ivan il Grande o il temibile e sanguinario Ivan il Terribile, si estinse con l’ultimo erede Fëdor e dopo pochi anni di doveroso caos dinastico in cui emerse la figura di Boris Godunov, da noi conosciuto più per l’opera di Mussorgski che per le sue gesta, si aprì il sipario su Michele, capostipite di una triste e provata dinastia che governò la Russia fino al 1917: la dinastia Romanov. Fu però proprio uno dei Romanov, Pietro il Grande, a defraudare Mosca del suo scettro di capitale.
Il giovane regnante temeva il Cremlino e gli intrighi che fra le sue mura si perpetravano a sue spese a opera della sorella Sofia. Lui volle San Pietroburgo. Ma questa è un’altra fiaba più europea, più raffinata. La fiaba di Mosca continuò negli spazi immensi della sua campagna, nei meandri scuri e dimenticati dei suoi conventi, nella devozione costante, sussurrata e clandestina dei monasteri.
Una religiosità punita.
A Sergev Posad, grigia e anonima cittadina a una settantina di chilometri da Mosca verso est, nascosta e protetta da mura antiche, si trova la massima espressione della Cristianità Ortodossa: il monastero della Trinità di San Sergio. Scure figure di monaci traversano come spettri gli spazi fra le chiese e il refettorio, seguiti da ossequiose donne cenciose, alla ricerca di una benedizione e di una scarna mano da baciare.
Eppure i visi emaciati di questi monaci, il portamento altero, il rosario pendente dalle cinture delle loro vesti, non rassicurano di certo. Anzi. Preludono a una religiosità a lungo punita, sacrificata sull’altare dell’ambizione umana, ma ora più che mai viva, salda e consapevole, pronta a rifarsi con spirito combattivo di quasi un secolo di negazioni. E questa forza si sente, si respira tangibile, spessa, nella chiesa più piccola ma più raccolta del territorio monasteriale.
Ecco, infine, dove si rintana l’anima russa, forse.
Tra i fumi delle candele, l’unica illuminazione dell’interno, si scorgono addossate al muro di fondo, piccole, anziane donne. Cantano la loro litania, incessante, ipnotica. Snocciolano i loro rosari guardando le icone che ricoprono pareti e soffitto. Immagini dove a fatica si riconoscono nell’oscurità i volti dei Santi e degli Apostoli. Le donne sono in attesa del proprio turno per percorrere i pochi metri che le separano dalla salma di San Sergio e baciarne le reliquie.
Che sia alla fin fine approdata proprio qua l’anima russa? Che dopo tanto vagare, scappare, nascondersi, abbia trovato un luogo dove potersi riconciliare al mondo? Esco dal territorio monasteriale passando da un massiccio cancello di legno. Nevica e ormai sta già imbrunendo.

Carol Gallo

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