
“Mi serve un punto di partenza, non fosse altro che un granello di polvere o una scintilla di luce. Un pezzo di filo può spalancarmi un mondo, così come un segno, l’impronta di un dito, una macchia sul terreno e la fiamma di un fuoco …” (J. Mirò)
La mostra del Mudec dedicata a Joan Mirò è parte del progetto di presentare al pubblico quegli artisti che hanno dialogato con le culture “altre”, e che da queste hanno tratto linfa e ispirazione per la creazione di un linguaggio originale, che ha a sua volta lascia un segno nell’arte del XX secolo.
Attraverso un’ampia selezione di opere realizzate tra il 1931 e il 1981 dal grande artista catalano, si penetra nell’universo della sua arte così personale, fatta di segni e di poesia. Mirò condivise l’avventura surrealista con gli artisti del suo tempo, ma anche con i suoi amici poeti, con i quali sperimentò la fusione tra pittura e poesia in un cammino segnato da un processo di semplificazione che rimanda al primitivismo, alla forza evocatrice del segno, del colore, della materia. Ed è proprio su questo ultimo aspetto che l’esposizione del Mudec presta attenzione: all’importanza che l’artista ha sempre conferito alla materia, non solo come strumento utile ad apprendere nuove tecniche, ma anche e soprattutto come entità fine a se stessa. Attraverso la sperimentazione di materiali eterodossi e procedure innovative, l’artista rompe le regole così da potersi spingere fino alle fonti più pure dell’arte, con la stessa potenza evocativa ed onirica dell’universo primitivo.
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QUALCHE SPUNTO OLTRE LA MOSTRA
JOAN MIRÒ E LA CATALOGNA
La Catalogna fu terra di geni: Joan Mirò, Pablo Picasso e Salvador Dalì, tre catalani nati fra la fine dell’Ottocento e il primissimo Novecento (Dalì nacque nel 1904), che hanno attraversato il XX secolo segnando profondamente l’arte europea e non solo. Grandi personalità, eccentrici sicuramente Picasso e Dalì, più introspettivo Mirò, che con la loro creatività, la potenza della loro arte, in momenti di trasformazione e rinnovamento, si sono posti loro stessi come fautori di una rivoluzione che passa dal Cubismo picassiano al Surrealismo di cui Dalì e Mirò, pur con espressioni molto diverse, furono fra i maggiori interpreti.
La terra catalana li unisce, anche se Picasso scelse di vivere in Francia, anche se Dalì trascorse lunghi periodi altrove, ma poi tornava sempre in Catalogna per concentrarsi nel suo lavoro, anche se pure Mirò non poté fare a meno di Parigi, capitale dell’arte moderna: le tradizioni, i colori di una terra che è altro rispetto alla Spagna, emergono potentemente nel loro immaginifico mondo.
Mirò in particolare aveva una propria visione della regione catalana, come luogo primitivo, fuori dal tempo, certo era una visione archetipa, che non corrispondeva ormai più alla realtà del tempo. Per questo si allontanò da Barcellona. Il suo temperamento non era incline a coinvolgimenti di carattere politico, aveva un’idea di nazionalismo catalano trascendente, al di sopra di questioni politiche, partigiane o di classe: quello che desiderava era una Catalogna moderna sì, autonoma sì, ma con profonde radici nel Mediterraneo da cui si poteva trarre linfa e rigenerazione culturale. In questi anni scrisse lettere ad amici mentre se ne stava nella campagna di Tarragona, lettere in cui esprimeva il viscerale rapporto con la natura, il sole, il cielo azzurro, il ritmo delle onde del mare … Descriveva se stesso come “figlio del Mediterraneo”.
VERSO UN LINGUAGGIO PERSONALE
La Catalogna fu protagonista della poetica di Mirò, fatta di colori intensi, luminosi, ma presto il naturalismo, per quanto reso con accento personale, si trasfigurò in un universo di segni: “quello che mi interessa di più è la calligrafia di un albero o di un tetto, foglia per foglia, ramo per ramo, filo d’erba per filo d’erba”. Con una disciplinata osservazione centrata sul dettaglio, Mirò stava costruendo un paesaggio archetipo attraverso un repertorio di segni iconografici, stava realizzando la sua concezione poetica del paesaggio, giungendo a spogliare le opere di materialità. Il proprio concetto ormai era sovrastorico e simbolico.
Attraverso questo cammino giunse al Surrealismo. 1919 Parigi. Diceva Mirò “bisogna andare a Parigi come lottatori, non come spettatori”, ma inizialmente non fu così per lui. Venne sopraffatto e rimase disorientato per un anno intero, ma qui conobbe Picasso, suo conterraneo, Tristan Tzara , poeta fondatore del Dadaismo, André Masson e soprattutto André Breton che dei Surrealisti fu il faro luminoso.
Del resto l’opera di Mirò che si evolveva verso un lessico segnico simbolico, aveva indubbiamente un fondamento surrealista fatto di immaginazione, di pulsioni interiori che creavano una realtà poetica al di là della realtà oggettiva, o meglio che della realtà oggettiva mostrava le componenti profonde colte dallo spirito catalano intenso e spontaneo dell’artista.
Sono di questi anni opere come il Carnevale di Arlecchino (1924-25) dove in una spazialità appena accennata l’immaginifico segnico di Mirò si muove con un ritmo che è musicale (Mirò amava la musica e la danza), con una libertà e fantasia che non ha eguali e che obbedisce ad un impulso automatico, solo apparentemente in ordine casuale: “comincio a dipingere, e mentre dipingo, il quadro comincia a farsi avanti e a profilarsi sotto il mio pennello” ma in una seconda fase tutto è “calcolato attentamente”.
L’automatismo surrealista, la libera associazione per cui il significante genera molteplici significati, era presente nell’arte come nella poesia, e la pittura elaborata da Mirò in questi anni è entrambe le cose. Intanto sperimentava materie diverse da quelle strettamente pittoriche: chiodi, linoleum, ciuffi di peli, cartacce …
MIRÒ E LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA
Nel 1936 scoppiò la guerra civile spagnola, qualcosa in Mirò si spezzò: quella fantastica armonia e libertà si tradusse nelle “pitture selvagge” dove le figure assunsero una metamorfosi mostruosa. L’artista lasciò la Spagna, a Parigi partecipò nel 1937 all’Esposizione Internazionale con un murale – Il mietitore – che insieme a Guernica di Picasso rappresentarono il grido contro la guerra e una richiesta di aiuto in difesa della libertà. Il suo spirito solitamente pacato, qui si ribellava con colori chiassosi e scomposizioni formali densi di significato.
Rifugiatosi in Normandia luogo ancora non toccato dalla guerra, che poi sarebbe inevitabilmente arrivata, nelle notti profonde abbandonato alla musica che amava, Mirò cercò con forza il riscatto, uscendo dall’angoscia attraverso segni e forme vicine alle stelle, alle costellazioni: arabeschi proiettati nell’aria, ritmi equilibrati … L’arte sembrava essere l’unica fonte di orientamento e ordine in un mondo che aveva smarrito tutto quello.
Nonostante la guerra, tornò in Spagna: qui ritrovò nuova vitalità a contatto con le tradizioni e i colori della Catalogna e il suo spirito libero e ludico si tradusse in simboli elementari e puri, “primitivi”, in pittura come in scultura, nelle ceramiche come nella grafica.
Dopo la guerra, mille progetti, fra cui i grandi pannelli in ceramica commissionati dall’Unesco per la sua sede parigina Muro del sole e Muro della luna, con i quali vinse il Premio Guggenheim!
I titoli delle opere di questi anni sono vere poesie … e la forza lirica del verso si riverbera nella struttura di dipinti fatti di segni e colori di una estrema semplicità, ma grande forza evocativa.
Mirò è questo: è colore, è leggerezza, è poesia, è sogno, è purezza…
DUE FONDAZIONI PER UN ARTISTA
Nel 1975 l’artista diede vita nella sua città natale alla Fondazione Joan Mirò voluta non tanto per celebrare la sua opera, quanto per promuovere l’arte contemporanea.
A Palma di Maiorca, dove si trasferì nel 1956 e dove morì il 25 dicembre 1983) venne creata un’altra Fondazione Mirò nella sede che fu lo studio dell’artista, dove si conservano anche gli strumenti del suo lavoro e dove il suo spirito aleggia…
Per saperne di più:
Fondazione Mirò Barcellona
Fondazione Mirò Palma di Maiorca